<< L’Accademia Reale Svedese delle Scienze ha deciso di assegnare a Jean-Pierre Sauvage, Sir James Fraser Stoddart e Bernard L. Feringa il Premio Nobel per la Chimica 2016 per il “progetto e la sintesi di macchine molecolari”>>.
Così si apre il documento con il quale viene presentato al grande pubblico il background scientifico che accompagna il premio Nobel per la Chimica 2016, che non solo riconosce il valore di un filone di ricerca estremamente prolifico e appassionante, ma anche il valore della ricerca di base nelle scienze chimiche, come lo stesso Jean-Pierre Sauvage ha voluto fortemente sottolineare nella videointervista che ha rilasciato in esclusiva per Chimicare. Dopo quindi una breve introduzione, che ci permetterà di avere una visione generale dell’argomento, passeremo in rassegna alcuni semplici strumenti chimici e matematici che ci serviranno per comprendere appieno l’importanza di questo lavoro.
Che cosa è una macchina molecolare? Come dice il nome stesso, è un dispositivo, come una ruota o un ingranaggio, costruito manipolando opportunamente un certo numero di molecole, capace di compiere gli stessi movimenti di una macchina macroscopica in risposta ad uno stimolo esterno. Anche la macchina più semplice è costituita da una serie di pezzi che sono capaci di muoversi relativamente gli uni agli altri, in maniera precisa e riproducibile nel tempo. Continua...
Il plasma, in fisica, rappresenta uno stato di organizzazione della materia corrispondente a quello di un gas ionizzato. Tutti o più frequentemente una parte significativa degli atomi che compongono un plasma presentano una carica elettrica individuale positiva oppure negativa – imputabile rispettivamente alla cessione o all’acquisizione di elettroni – anche se nel suo insieme il corpo del plasma risulta elettricamente neutro in quanto queste cariche si compensano dal punto di vista statistico.
Procedendo quindi dallo stato solido a quello liquido, fino allo stato gassoso, lo stato di plasma costituisce un’ulteriore progressione nello stato energetico interno alla materia. Se nello stato gassoso le interazioni fra le singole particelle (per semplicità pensiamo ad un gas monoatomico, come ad esempio un gas nobile come l’elio o l’argon) potevano essere riportate in prima approssimazione all’effetto degli urti reciproci ed assolutamente casuali tra i singoli atomi, nel caso di uno stato di plasma le interazioni fra le particelle sono a più lungo raggio e precedono di gran lunga un eventuale contatto o “urto” fra di esse. In un plasma ogni particella elettricamente carica è condizionata nei suoi movimenti da altre particelle di carica uguale e di carica opposta, certamente di più da quelle vicine, ma in linea di principio da tutte quelle che compongono la massa. Continua...
La natura degli atomi è molto diversa dal mondo che sperimentiamo quotidianamente. Tutto ciò, vale a dire il comportamento di piccole particelle come gli atomi e gli elettroni, era già stato scoperto all’inizio del secolo scorso e descritto dalla meccanica quantistica. Grazie ad essa, oggi sappiamo che l’atomo non può essere considerato come una sfera rigida e gli elettroni non ruotano intorno ad un centro. In realtà, gli elettroni possono muoversi anche nello spazio esterno all’atomo, e questo è quello che si chiama effetto tunnel.
Il tunnelling quantistico (o effetto tunnel) venne postulato per la prima volta nel 1928 dal fisico ucraino George Gamow per spiegare il decadimento alfa, in cui una particella ⍺ (un nucleo di elio, 4He) viene emessa da un nucleo in quanto riesce a superarne la barriera di potenziale.
Nella meccanica classica la legge di conservazione dell’energia prevede che una particella possa superare un determinato ostacolo (o barriera di potenziale) soltanto se essa possiede un’energia sufficiente. Ad esempio, per fare risalire una palla in cima ad una collina, e farla rotolare lungo il crinale opposto, sarà necessario imprimerle una velocità (e quindi fornirle un’energia cinetica) almeno pari all’energia potenziale del punto di massima altezza (E cinetica ≥ E potenziale). Continua...
L’espressione “bruciare gli zuccheri” è entrata da tempo nel nostro frasario di tutti i giorni: brucia gli zuccheri assunti con una bella alimentazione energetica lo sportivo nello sforzo della prestazione atletica, così come li brucia (o li vorrebbe bruciare) la persona con qualche problema di linea che, seguendo un regime dietetico ipocalorico, cerca in tutti i modi di evitare la loro conversione in lipidi che andrebbero ad incrementare la massa grassa accumulata in cuscinetti antiestetici su pancia e fianchi.
L’espressione è entrata a tal punto a far parte del linguaggio quotidiano che il video che segue, relativo proprio al tentativo di “bruciare” lo zucchero nel senso letterale del termine, potrebbe sollevare un filo di sconcerto, a questo punto quanto mai ragionevole:
Lo zucchero sembrerebbe non bruciare affatto.
L’operatore ha afferrato uno zolletta di saccarosio (il comune zucchero alimentare usato in cucina), scegliendo di operare su una zolletta per una semplice problema di comodità, ed ha provato “ad accenderla” su una fiamma, garantita in questo caso da una candela accesa. Il risultato? Nessuno: la fiamma “non prende”, la zolletta non si accende, ovvero lo zucchero non brucia. Alla peggio, dopo un po’ di tempo di esposizione alla fiamma (quello che in altri contesti si definirebbe “innesco”) si assiste alla degradazione del saccarosio con la formazione di una massa fluida e scura di caramello e lo sviluppo del caratteristico aroma dolciastro. Continua...
“Non bagnarti, che ti raffreddi!” dicevano spesso le nostre mamma quando eravamo piccoli, inevitabilmente attratti nei nostri giochi da ogni sorta di apparato da giardino in grado di distribuire l’acqua. Non so voi ma io per esempio avevo una vera passione nei confronti di tutta quella gamma di erogatori semoventi per irrigare a pioggia le aiuole.
Non bagnarti che ti raffreddi: però a ben pensarci l’acqua che questi irrigatori distribuivano non era poi di molto inferiore a quella dell’ambiente circostante, anzi, ricordo dei casi nei quali il contato immediato forniva addirittura una sensazione di tiepido. Infatti la preoccupazione delle nostre madri non stava tanto nel contatto immediato, quanto nel fatto che poi quest’acqua “ci restasse addosso”, ad esempio inzuppando i vestiti, quindi a contatto con la pelle per lungo tempo. Ed a questo punto i ricordi parlano chiaramente di frescura. Un raffrescamento spesso gradevole, talvolta fondamentale nelle calde giornate estive, con buona pace delle raccomandazioni materne, tanto che la natura ci ha dotati, come un po’ più un po’ meno tutti i mammiferi, di un sistema di auto-irrigazione cutaneo, ritenuto dall’evoluzione così fondamentale da “permettersi” di estrarre acqua dal corpo per utilizzarla in questo modo.
Stiamo ovviamente parlando del sudore, ovvero di quel liquido escreto a livello cutaneo da circa 3 milioni di minuscole ghiandole sudoripare disperse su un po’ tutta la nostra superficie corporea e che danno ragione di un volume giornaliero di liquido prodotto che varia da mezzo litro a quasi dieci litri in ragione dell’attività fisica che realizziamo, del clima e di caratteristice genetiche e personali. Continua...
Una delle esperienze di chimica “spettacolare” più comunemente proposta negli show che vogliono mostrare al grande pubblico l’aspetto giocoso ed accattivante della chimica è quella nota come il “dentifricio dell’elefante”.
Video di questa spettacolare chemical experience sono diffusissimi su internet (ed infatti di seguito ne riporterò alcuni da YouTube), mentre meno frequenti risultano i commenti ad essi, ed in particolare quelli che si spingono oltre al fornire la ricetta degli ingredienti da miscelare per produrre da sé la reazione, non senza un filo di pericolo in certi casi colpevolmente sottovalutato da chi si espone in video senza gli idonei dispositivi di protezione individuali come guanti e mascherina adatti.
Di fatto cosa vediamo almeno negli esperimenti più dettagliati (come ad esempio nel secondo video riportato in questo articolo) è un operatore che mescola diversi componenti liquidi dentro ad un cilindro trasparente o ad una bottiglia; dopo l’aggiunta molto rapida dell’ultimo ingrediente l’operatore si ritira velocemente di scena mentre in pochi istanti dal contenitore inizia a generarsi un cilindro di schiuma, bianca o più spesso colorata, che velocemente cresce, straborda dal collo della bottiglia o del cilindro, esattamente come un dentifricio che esca da un enorme tubetto (da qui il nome di “dentifricio dell’elefante” dato all’esperienza), finchè il fenomeno dopo un periodo che varia da una manciata di secondi ad un minuto buono si esaurisce, non prima di avere sporcato tutto il tavolo di quella schiuma che, una volta a riposo, tende a trasformarsi inevitabilmente in una piccola quantità di liquido sparsa sul piano di lavoro. Continua...
Ho ricevuto questo divertente video da parte di un amico che me ne chiedeva anche un’interpretazione.
La mia ipotesi è quella che si tratti di una cristallizzazione di una soluzione sovrassatura, creata a caldo ed incapace di cristallizzare spontaneamente a freddo per un fenomeno comune nelle realtà complesse e macroscopiche detto isteresi.
Riprendendo la cosa dall’inizio, è noto a tutti che molti solidi (in questo caso il sale organico detto acetato di sodio) aumentano la loro solubilità in un solvente (in questo caso l’acqua) all’aumentare della temperatura. Tenendo calda l’acqua l’operatore infatti riesce a sciogliere al suo interno una quantità di acetato di sodio di gran lunga maggiore di quanto riuscirebbe a scioglierne a temperatura ambiente. Quando facciamo la stessa cosa con altri prodotti solubili, per esempio zucchero o sale, dal momento che raffreddiamo di nuovo la soluzione il prodotto che prima se ne stava sciolto a caldo in soluzione torna a separarsi, molto lentamente, formando cristalli o incrostazioni di vario tipo sulle pareti, sul fondo o talvolta anche sulla superficie del liquido, ma si tratta comunque di un processo che può richiedere minuti, a volte ore, ed avviene in concomitanza del raffreddamento della soluzione.
Si dice satura una soluzione che ha disciolto al suo interno la massima quantità di soluto (in questo caso l’acetato di sodio) possibile ad na certa temperatura. Continua...